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lunedì 7 dicembre 2009

Copenhagen al via. Ci sarà anche Obama


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Copenhagen al via. Ci sarà anche Obama


L'ultimo colpo di scena è quello annunciato venerdì sera dalla casa Bianca: il presidente degli Stati uniti Barack Obama parteciperà andrà il 18 dicembre a Copenhagen per partecipare al vertice dell'Onu sul clima, insieme a un centinaio di altri capi di stato e di governo. La partecipazione di Obama è senza dubbio un segnale positivo per la conferenza che comincia oggi nella capitale danese (e durerà ben due settimane, per concludersi con tre giorni di vertice dei capi di stato). «Dopo mesi di attività diplomatica ci sono reali progressi verso un accordo significativo», dichiara la Casa Bianca per spiegare la decisione di Obama di presenziare al giorno conclusivo del vertice, cioè al momento di avallare decisioni politiche (invece che cavarsela con un saluto il 9 dicembre, sulla via di Oslo dove prenderà il Nobel per la pace).
Neanche la presenza di Obama però garantisce l'accordo globale sul clima in discussione ormai da due anni. Anzi: sembra ormai scontato che la conferenza di Copenhagen non si concluderà con un accordo vincolante (come è il protocollo di Kyoto, che impone ai paesi industrializzati di tagliare le loro emissioni di gas di serra complessivamente del 5,2% rispetto al 1990 entro il 2012). Si parla invece di un primo «accordo politico», con l'impegno a riconvocarsi nel 2010 per arrivare a un vero e proprio trattato.
Il primo punto contrastato riguarda gli obiettivi: quanto è necessario diminuire la concentrazione di gas di serra nell'atmosfera (quindi le emissioni) per contenere l'ormai inevitabile aumento della temperatura globale entro i 2 gradi centigradi, soglia del disastro. Nelle ultime due settimane alcuni dei «grandi emettitori» di gas di serra hanno definito i propri impegni. Gli Usa si propongono emettere il 17% meno dell'anno 2004 entro il 2020: rispetto al nulla fatto negli anni dell'amministrazione Bush è significativo, ma è solo un taglio del 3% rispetto al 1990, anno di riferimento dei negoziati (l'Unione europea ha proposto già l'anno scorso di tagliare del 20% rispetto al 1990 entro il 2020, e offre di tagliare anche del 30% se a Copenhagen ci sarà un accordo serio). Poi c'è la Cina, primo emettitore mondiale di anidride carbonica (CO2): la scorsa settimana ha annunciato che si impegna a diminuire l'intensità di carbonio (la quantità emessa per unità di prodotto) tra il 40 e 45% entro il 2020: significa aumentare le emissioni, ma con una curva ben più bassa che se seguisse al ritmo attuale. L'India è stato l'ultimo tra i grandi paesi (per popolazione e per trend di crescita dell'economia) a farsi avanti: venerdì il ministro dell'ambiente Jairam Ramesh ha detto che si presenterà al negoziato di Copenhagen con l'impegno a diminuire l'intensità di carbonio del 20-25% entro il 2020 (rispetto al 2005). A rafforzare la posizione indiana, ieri New Delhi ha fatto sapere che il primo ministro Manmohan Singh andrà al vertice di Copenhagen.
Cina e India dunque accettano di prendere degli impegni: ma solo voliontari, dicono che non firmeranno obblighi vincolanti. Anzi, non firmeranno nulla se i paesi industrializzati, a cui spetta la prima responsabilità storica, non accetteranno di tagliare le loro emissioni almeno del 40% rispetto al '90 entro il 2020.
L'altro punto controverso sono i finanziamenti: un fondo per aiutare i paesi in via di sviluppo a diminuire le loro emissioni (adottando tecnologie più avanzate e «pulite»), e uno per aiutarli ad adattarsi agli effetti del cima che comunque cambierà. Per ora solo l'Unione europea ha fatto cifre: serviranno 100 miliardi di euro l'anno da qui al 2020, e offre per cominciare 5-7 miliardi l'anno tra il 2010 e il 2012.

Marina Forti


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