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mercoledì 31 gennaio 2018

Lettera Commissione Europea all’Italia per Smog



L’Italia ha da poco ricevuto dalla Commissione Europea un documento sulla seconda fase di una apposita procedura di infrazione per sollecitare il nostro Paese a ridurre le emissioni di particolato, in particolare la frazione Pm10. La procedura è stata avviata per la violazione dei limiti giornalieri di Pm10 in trenta zone e coinvolge diverse regioni, in particolare dell’area padana. Colpa del traffico? Macché: la fonte principale di Pm10 sono le biomasse legnose, originate da stufe a pellet o dalla legna, dalle quali deriva il quarantacinque per cento delle polveri sottili diffuse nell’aria. I motori diesel, fra i quali primeggiano quelli dei Tir ai quali in Italia è affidata una grande parte del trasporto commerciale, contribuiscono per il quattordici per cento. Il tredici per cento invece è prodotto da particelle che si staccano dalle pastiglie dei freni e dai pneumatici: non solo diesel ma tutti i veicoli, a benzina, ibridi, elettrici, moto e motorini. E dalle biciclette.


“Risponderemo alla lettera della Commissione Europea sullo smog nelle città italiane illustrando nel dettaglio tutto ciò che il nostro Paese sta facendo per superare strutturalmente l’emergenza smog” ha prontamente risposto il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti. “Stiamo affrontando dal primo giorno la questione dei superamenti nei livelli di inquinanti nelle nostre città del bacino padano, ma anche di altre aree italiane. A preoccuparci non è la prospettiva di una sanzione europea, ma innanzitutto il rischio che corrono la salute dei cittadini e la qualità dell’ambiente”, ha sottolineato il ministro. “Abbiamo già definito con le Regioni padane un accordo che sarà implementato con nuovi interventi concordati e coordinati e siglato in giugno in occasione del G7 Ambiente a Bologna”, ha aggiunto Galletti. “A livello nazionale abbiamo in atto interventi per migliorare l’efficienza energetica degli edifici privati e pubblici e quindi per ridurre le emissioni civili, interventi per la mobilità sostenibile pubblica e privata con particolare riferimento a quella elettrica e ciclabile”.

Mentre il governo promette, il WWF osserva cosa è stato fatto fino ad oggi. “La salvaguardia della salute dei cittadini italiani dovrebbe essere la prima preoccupazione di governi nazionali, regionali e locali, mentre mancano ancora serie politiche di sistema per affrontarne e abbatterne le cause, dal traffico all’energia e al riscaldamento” è il commento dell’associazione alla notizia della lettera della Commissione Europea all’Italia. Per il Wwf serve un provvedimento quadro che fissi obiettivi e compiti alle singole amministrazioni, integrato con le politiche di decarbonizzazione: dall’uso delle fonti pulite e rinnovabili, alla elettrificazione dei trasporti, all’efficienza energetica negli edifici che diminuisce drasticamente le necessità di riscaldamento. Urgente, per il WWF, un Piano trasporti e ambiente che ripensi la mobilità, urbana e non, di persone e merci, e obblighi e sanzioni adeguate per chi si ostina a usare combustibili e sistemi inquinanti. “Di grande importanza, inoltre, la decisione che verrà assunta dalla Commissione – sottolinea il Wwf – che deve approvare gli standard e imporre l’uso delle migliori tecniche disponibili per limitare l’inquinamento dei grandi impianti di combustione: vedremo se l’Italia starà dalla parte della salute”.

Oltre al WWF, ad aver preso a cuore l’inquinamento da polveri sottili è Legambiente, che oltre ad aver effettuato monitoraggi e studi ha presentato la sua ‘ricetta antinquinamento’: “Da questa malattia cronica è possibile uscire se si mettono in campo determinazione e interventi adeguati e strutturali”. Per l’associazione la soluzione sono gli alberi che tornano a essere i protagonisti del centro e delle periferie, reti ciclabili, mezzi pubblici e auto elettriche, eco-quartieri,
 e progetti di rigenerazione urbana.

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MAPPA ITALIA SMOG



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Inquinamento: Mappa delle Polveri Sottili in Italia


Inquinamento: 
la mappa delle polveri sottili in Italia secondo Legambiente
Il mese di gennaio si chiude con gran parte delle città italiane
 di nuovo in emergenza smog. 
I dati indicano 9 città italiane con oltre 15 superamenti del limite giornaliero previsto per il PM10. 


Città sopra il limite di polveri sottili in un anno 
Città Centralina N° superamenti PM10
Torino Grassi 89
Frosinone Frosinone scalo 85
Milano Pascal Città Studi 73
Venezia V. Tagliamento (TU) 73
Vicenza VI - Quartiere Italia (BU) 71
Asti Baussano 71
Alessandria D'Annunzio 69
Padova PD - Arcella (TU) 68
Treviso Strada S.Agnese 68
Pavia Piazza Minerva 67
Mantova Piazza Gramsci 65
Brescia Villaggio Sereno 65
Cremona p.zza Cadorna 64
Monza via Machiavelli 61
Como Viale Cattaneo 60
Terni Le Grazie 59
Napoli NA09 Via Argine 58
Bergamo via Garibaldi 53
Verona S.Bonifacio 53
Lodi Viale Vignati 51
Rimini Flaminia 51
Vercelli Gastaldi 50
Benevento Campo Sportivo 45
Piacenza Giordani-Farnese 45
Palermo Di Blasi 44
Avellino AV42 43
Rovigo Centro (TU) 42
Reggio Emilia Timavo 42
Roma Tiburtina 41
Modena Giardini 40
Novara Verdi 40
Trieste Stazione via S.Lorenzo in S. 38
Ferrara Isonzo 36 


A livello regionale, le regioni a cavallo della pianura padana hanno registrato le maggiori criticità. In Lombardia sui 12 capoluoghi, solo Sondrio e Lecco non hanno superato i limiti con le 4 centraline presenti sul territorio (due per capoluogo); per le altre città non c'è stato scampo, il 100% delle centraline è andato oltre i limiti.
In Piemonte Biella (2 centraline), Cuneo (2 centraline) e Verbania (1 centralina) non hanno registrato superamenti con le 5 centraline presenti. Le restanti 5 città hanno fatto l'en plein dei superamenti con le loro 13 centraline.
In Veneto delle sette città capoluogo, solo Belluno con la sua unica centralina si salva, mentre le altre 14 centraline dei sei centri urbani hanno superato il limite.
In Emilia Romagna il 25% delle centraline urbane ha superato il limite (5 su 20); si salva Bologna con la peggiore centralina che si ferma a 33 giorni nel 2016, Forlì, Cesena, Parma e Ravenna che non hanno rilevato superamenti nelle centraline urbane. Superamenti registrati invece a Ferrara, Modena, Reggio Emilia, Piacenza e Rimini che hanno superato 
con una centralina ciascuna il limite di 35 giorni.
In Toscana non si sono verificati superamenti del limite in nessuna città capoluogo di provincia.
In Campania solo le stazioni di Benevento hanno registrato il 100% dei superamenti (2 centraline su 2), mentre a Napoli sono 2 su 6 quelle oltre i limiti; 
Salerno non ha registrato superamenti del limite così come Caserta.

Fonte: Legambiente - Dati al 30 gennaio 2017

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COMMISSIONE EUROPEA



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sabato 20 gennaio 2018

Detersivo per Lavatrice che NON Inquina



Detersivo per lavatrice fatto in casa che non inquina

Un’alternativa semplice al detersivo commerciale in polvere per lavatrice che è altamente inquinante non solo per l’ambiente ma anche per la nostra pelle è davvero facile ed economica.

Esistono anche quelli biologici oppure più eco o green, ma devo ammettere che non costano pochissimo, quindi dopo vari esperimenti sono approdata a questa ottima soluzione:

– 300 gr di sapone di marsiglia , il panetto in commercio, meglio quello ecobio a questo punto, visto che dobbiamo metterci energia umana e impegno, facciamolo bene! 
Io utilizzo il sapone che faccio in casa.

– 150 gr di percarborato di sodio, che si trova anche questo nei negozi specializzati bio, costicchia non poco anche questo, la soluzione economica ma meno etica è utilizzare la soda solvay, che si trova nei supermercati a basso costo, da non confondere con la soda caustica;

– 150 gr di bicarbonato di sodio

Grattugiare con la grattugia del grana il panetto di sapone e aggiungere gli altri due ingredienti, mescolare per bene e utilizzarne 2-3 cucchiai da tavola direttamente nell’oblò della lavatrice a temperatura desiderata.

Ottimo anche per bianchi e colorati!



Quanto inquina una lavatrice?

L'inquinamento delle acque provocato dalle attività umane ci fa immediatamente pensare alle bottiglie di plastica che affiorano in superficie o alle buste della spesa che soffocano le tartarughe. Sono queste le immagini più utilizzate nelle campagne di sensibilizzazione ad un corretto smaltimento dei rifiuti di plastica. Nel mare, però, si nasconde un altro nemico, con un impatto emotivo decisamente inferiore ma non per questo meno insidioso. Parliamo delle microplastiche provenienti dalle acque reflue delle nostre lavatrici, 
fibre di dimensioni microscopiche pericolose per la fauna marina.

Secondo un recente studio pubblicato sulla rivista Environmental Science and Technology, si tratta di una fonte piuttosto rilevante di inquinamento da plastica negli oceani. Mark Anthony Browne, biologo dello University College di Dublin, ha individuato frammenti di fibre sintetiche come acrilico, polietilene, polipropilene, poliammide e poliestere nelle acque della Gran Bretagna, dell'India, di Singapore e di diverse altre aree del mondo.

Il lavaggio di un singolo capo, dagli esperimenti effettuati, può generare fino a 1900 fibre e nel mondo i capi sintetici sono sempre più utilizzati. Per scongiurare il rischio di contaminazione, i ricercatori chiedono ai produttori di lavatrici di ideare nuove tecnologie capaci di ridurre il rilascio di fibre in fase di scarico.

Le microfibre sono i peggiori inquinanti marini

Ad ogni lavaggio, gli indumenti in microfibra perdono in media 1,7 grammi di frammenti. Di questi il 40% va a inquinare fiumi, laghi, mari e mette a rischio anche gli animali
La fonte di inquinamento delle acque più diffusa – e preoccupante – dipende dalla centrifuga della nostra lavatrice. Uno studio dell’Università della California appena pubblicato assegna alle microfibre che si staccano dai vestiti ad ogni lavaggio il primo posto nella lista degli inquinanti marini. Da qui deriva non solo l’avvelenamento di fiumi e mari, ma anche il rischio concreto di mettere a repentaglio animali non solo acquatici.

Tutto inizia dalle prove raccolte dalla ricercatrice Sherri Mason nei pesci dei Grandi Laghi al confine tra Stati Uniti e Canada: i loro corpi sono pieni di microfibre sintetiche, minuscoli frammenti che si staccano dai vestiti. Lo stesso vale per le zone costiere. Mason si è allora chiesta da dove potesse provenire una quantità così grande di filamenti tossici. E la risposta è la lavatrice.

In media, si legge nella ricerca, un giubbotto in tessuto sintetico perde 1,7 grammi di microfibre ad ogni lavaggio. Se è nuovo, perché se invece ha i suoi anni il dato raddoppia. Dalla lavatrice, questi frammenti vengono scaricati insieme all’acqua negli impianti di trattamento. Solo una parte viene effettivamente trattenuta: il 40% finisce in fiumi, laghi, oceani.

Queste microfibre sintetiche sono particolarmente pericolose in quanto hanno il potenziale di avvelenare tutta la fauna di un ecosistema, l’intera catena alimentare. Le dimensioni microscopiche favoriscono l’ingestione da parte dei pesci. Il rischio è amplificato dalla loro capacità di bioaccumularsi negli organismi, quindi di concentrare una quantità sempre maggiore di tossine nei corpi degli animali ai livelli superiori della catena alimentare.

A sua volta, la bioaccumulazione spalanca prospettive decisamente inquietanti visto che le microfibre plastiche assorbono molecole e sostanze inquinanti persistenti e ad elevatissima tossicità, come ad esempio i policlorobifenili (PCB), che si vanno poi a concentrare nei tessuti organici.

I risultati di questa ricerca devono far riflettere anche su alcune pratiche considerate finora pienamente sostenibili. È il caso della stessa azienda che ha sovvenzionato lo studio di Mason, Patagonia. Per ridurre la sua impronta ecologica, la compagnia ricicla bottiglie di plastica – triturandole – per ricavarne microfibra per gli indumenti sportivi che commercializza. Ma secondo questa ricerca, quella stessa plastica avrebbe inquinato di meno sotto forma di bottiglia.

LEGGI ANCHE: 
INQUINAMENTO MARINO



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lunedì 15 gennaio 2018

Inquinamento da Petrolio : Conseguenze e Rimedi


Inquinamento da petrolio


Contaminazione dell'ambiente (del suolo, dell'aria e soprattutto dell'acqua)
 causata da ogni genere di idrocarburi liquidi, 
ovvero dal petrolio greggio o dai suoi derivati. 

Tipi di inquinamento da petrolio:


1. Inquinamento marino 

L'inquinamento da idrocarburi può essere sistematico o accidentale. Quello accidentale è prodotto, nella maggior parte dei casi, dal riversamento in mare di ingenti quantità di petrolio da petroliere coinvolte in incidenti di navigazione (collisioni, incagliamenti, incendi, esplosioni, naufragi) ed è causa di considerevoli danni agli ecosistemi marini e litorali. Tra gli incidenti più gravi verificatisi negli ultimi decenni si ricordano quello della Torrey Canyon, che nel marzo del 1967 riversò nelle acque al largo della Cornovaglia 860.000 barili (107.000 tonnellate) di petrolio, e quello della Exxon Valdez, che nel marzo del 1989 contaminò l'intera baia di Prince William, nel golfo dell'Alaska, con ben 240.000 barili (30.000 tonnellate) di greggio, causando la morte di almeno 25.000 uccelli, più di tremila fra foche e lontre, e 22 balene. Altri naufragi tristemente memorabili furono quello della Erika, nel dicembre 1999, che riversò sulle coste della Bretagna 13.000 tonnellate di greggio; quello della Jessica, verificatosi nel gennaio 2002 davanti alle isole Galápagos, che mise a rischio la preziosa oasi naturale e costrinse le autorità ecuadoriane a evacuare gli animali e dichiarare lo stato d’emergenza; quello della Prestige, che nel novembre del 2002 si spaccò in due tronconi, invadendo le coste spagnole della Galizia con 60.000 tonnellate di petrolio. Il più grave in assoluto fu, tuttavia, quello verificatosi nel 1979 al largo di Trinidad e Tobago: la collisione di due superpetroliere, la Aegean Captain e l'Atlantic Empress, provocò la fuoriuscita di circa 2.160.000 barili (270.000 tonnellate) di petrolio. Da ricordare anche l’incidente della Haven, che nell’aprile 1991 scaricò al largo di Genova 50.000 tonnellate di greggio. Solo il 10% degli idrocarburi che contaminano i mari proviene, tuttavia, da riversamenti accidentali. Il resto proviene da fonti croniche, quali la ricaduta di particelle inquinanti dall'atmosfera, infiltrazioni naturali, dilavamento degli oli minerali dispersi nell'ambiente, perdite di raffinerie o di impianti di trivellazione su piattaforme in mare aperto e, soprattutto, lo scarico a mare di acque di zavorra da parte di navi cisterna e petroliere. A causa del sabotaggio degli impianti petroliferi, durante la guerra del Golfo, nel 1991, furono riversate nel golfo Persico 460.000 tonnellate di greggio; sempre nel golfo Persico, nel 1983, si andarono a riversare 540.000 tonnellate di greggio fuoriuscite dalla piattaforma petrolifera Nowruz (il più grave incidente mai occorso a una piattaforma). La fonte principale dell'inquinamento marino da idrocarburi (20% dell'inquinamento totale) rimane, tuttavia, lo scarico in mare di acque contaminate nel corso di operazioni di lavaggio delle cisterne. Una volta consegnato il proprio carico alle raffinerie, le petroliere pompano nelle cisterne acqua che serve da zavorra per il viaggio di ritorno e che viene scaricata in mare prima di giungere ai terminali di carico, contribuendo, così, a produrre un tipo di inquinamento sistematico, o cronico, spesso molto più grave di quello accidentale. I grumi di catrame che si depositano sulle spiagge nelle località balneari derivano perlopiù dai residui contenuti nelle acque di zavorra scaricate in mare. L'impiego di questa tecnica di lavaggio è stato limitato, a partire dagli anni Settanta, da una serie di convenzioni internazionali, che hanno imposto la realizzazione di petroliere progettate in modo tale da rendere minima la fuoriuscita di greggio in caso di incidente, l'installazione a bordo di sistemi per la separazione dei residui di petrolio dalle acque di zavorra e di lavaggio pompate in mare, l'adozione di dispositivi per il controllo del grado di inquinamento delle acque di zavorra e l'installazione di impianti per la raccolta e il trattamento delle acque contaminate presso i terminali di carico del greggio e i porti di scalo. 


2. Inquinamento dei suoli 

Anche i giacimenti di petrolio su terraferma possono provocare gravi danni all'ambiente. In questo caso, le fuoriuscite nocive sono dovute, nella maggior parte dei casi, alla cattiva progettazione, gestione e manutenzione degli impianti. Nell'Ecuador, ad esempio, il grave e diffuso inquinamento del suolo e dei corpi idrici di alcune zone è causato soprattutto da improvvise 'eruzioni' di petrolio dai pozzi durante le operazioni di trivellazione, dalla dispersione abusiva del petrolio meno pregiato e dal cattivo funzionamento dei sistemi per la separazione del petrolio dall'acqua. Il grave inquinamento da idrocarburi di alcune regioni della Russia è dovuto a cattiva manutenzione degli oleodotti. Nell'ottobre del 1994 nei pressi di Usinsk, non lontano dal Circolo polare artico, da una falla apertasi in un oleodotto fuoriuscirono 60.000-80.000 tonnellate di greggio che devastarono i delicati ecosistemi della tundra e della taiga. Alle alte latitudini, i naturali processi di degradazione del greggio si svolgono con molta lentezza e ciò contribuisce ad aggravare l'impatto di episodi come questo. Anche nelle regioni tropicali, tuttavia, i danni causati dal petrolio non sono indifferenti. Gli oleodotti che attraversano la regione del delta del Niger, in Nigeria, sono obsoleti e molto usurati; le perdite sono frequentissime e i tentativi di risolvere il problema bruciando i residui dispersi sul terreno o lasciando che il petrolio disperso finisca con il degradarsi al calore del sole hanno ottenuto un effetto deleterio: sui terreni si è formata una crosta sterile di un paio di metri che ha reso tali terreni praticamente inutilizzabili. 


CONSEGUENZE E RIMEDI
Di norma il petrolio scaricato in mare viene degradato naturalmente dall'ambiente attraverso processi fisici, chimici e biologici. Galleggiando sull'acqua, il greggio si allarga rapidamente in un'ampia chiazza, disponendosi in strati di vario spessore, che le correnti e i venti trasportano a grandi distanze e dividono in 'banchi', disposti parallelamente alla direzione dei venti prevalenti. Le frazioni più volatili del petrolio evaporano nel giro di pochi giorni, perdendo in poche ore una notevole porzione della propria massa. Alcune componenti penetrano negli strati superiori dell'acqua, dove producono effetti molto nocivi sugli organismi marini e lentamente vengono ossidate biochimicamente a opera di batteri, funghi e alghe. Le frazioni più pesanti vagano, invece, sulla superficie del mare, fino a formare grumi difficilmente degradabili che affondano lentamente fino a raggiungere il fondo marino. I tempi richiesti da questo processo di degradazione variano a seconda delle condizioni del mare, delle condizioni meteorologiche, della temperatura e del tipo di inquinante. Quando, nel gennaio del 1993, la petroliera Braer fece naufragio al largo delle isole Shetland, le condizioni meteorologiche (forti venti spiravano da terra verso il mare aperto), quelle del mare (burrascoso) e il particolare tipo di petrolio trasportato (relativamente leggero) favorirono la dispersione di 680.000 barili di greggio, cosicché solo un'area molto localizzata delle coste subì danni di una certa rilevanza (a essere danneggiati furono, perlopiù, alcune acquacolture e le popolazioni locali di uccelli marini). Il petrolio disperso in mare può causare gravi danni alle specie marine di superficie, soprattutto uccelli, ma anche mammiferi e rettili. Il piumaggio degli uccelli marini, imbrattato dal petrolio, viene spesso irrimediabilmente rovinato e gli uccelli stessi, nel tentativo di ripulirsi, ingeriscono notevoli quantità di petrolio che causa intossicazioni talvolta letali. Il petrolio che va a riversarsi sulle coste può distruggere interi ecosistemi particolarmente sensibili (barriere coralline, paludi salmastre, foreste di mangrovie) e provocare seri danni a svariate attività commerciali, quali la pesca e l'acquacoltura, o al turismo. Una delle soluzioni più utilizzate in passato per rimediare all'inquinamento accidentale da petrolio consisteva nell'irrorare le pellicole oleose con sostanze emulsionanti. Le emulsioni risultavano, tuttavia, in qualche caso molto più dannose del petrolio stesso e tale tecnica è stata pertanto progressivamente abbandonata. Oggi si preferisce ricorrere a barriere galleggianti o a speciali imbarcazioni che raccolgono il petrolio effettuando una sorta di raschiatura sulla superficie del mare; le macchie di petrolio vengono ancora spruzzate con agenti emulsionanti solo nel caso in cui minaccino di raggiungere la costa. Il petrolio che si riversa sulle spiagge non viene sottoposto ad alcun trattamento: in genere si preferisce aspettare che a degradarlo provvedano i normali meccanismi di decomposizione. Nel caso in cui a essere colpite siano località balneari, si preferisce rimuovere gli strati superficiali di sabbia, piuttosto che ricorrere a solventi ed emulsionanti, i quali farebbero penetrare il petrolio più in profondità. I solventi vengono ancora utilizzati solo per ripulire impianti e attrezzature. Le pellicole oleose sono state in qualche caso irrorate con batteri capaci di degradare il petrolio. I risultati sono stati incoraggianti, anche se, per attivare i batteri e stimolarne la crescita, è necessario aggiungere alle colture nutrienti potenzialmente nocivi per gli ecosistemi litoranei e per la qualità delle acque. 


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L’Affondamento della Petroliera è un Disastro Ambientale Enorme



Ora la paura è per un enorme danno ambientale. La petroliera trasportava 136mila tonnellate di petrolio ultra light, potenzialmente più pericoloso del greggio in caso di sversamenti in mare.  Questo tipo di petrolio, infatti, evapora più facilmente e con altrettanta facilità si miscela con l’acqua. Inoltre può essere incolore e inodore e rendere così le operazioni di raccolta e pulizia molto più difficili. La petroliera Sanchi era di proprietà della National Iranian Tanker Company (Nitc) 
e batteva bandiera panamense.

La nave trasportava 136mila tonnellate di condensato ultraleggero

Le conseguenze dell’estrazione e dell’uso del petrolio sono devastanti. Dall’ambiente alla salute, dai diritti umani fino ai conflitti armati.
“Non esiste posto al mondo migliore per le energie rinnovabili rispetto al nostro paese”. A dichiararlo, il 17 marzo 2016, non è stato un militante ambientalista ma Ali al Naimi, ministro del Petrolio dell’Arabia Saudita. Ovvero del secondo produttore mondiale di greggio (dopo gli Stati Uniti), con ben 11,5 milioni di barili al giorno.

Non a caso, secondo quanto riferito dall’agenzia Bloomberg, la monarchia araba sembra aver pianificato già da tempo la transizione, prevedendo di installare una capacità pari a 54 gigawatt di energia pulita entro il 2040.

Il petrolio nel mondo
Barili di greggio che produce l’Arabia Saudita, al giorno 11,6 milioni
Barili di petrolio consumati ogni anno nel mondo
30 miliardi (fonte: Agenzia internazionale per l'energia)
Quota di produzione mondiale di energia da fonti fossili 80% (fonte: Agenzia internazionale per l'energia)
Numero di decessi attribuiti ogni anno al solo inquinamento atmosferico nel mondo
3,7 milioni (fonte: Oms)
Le vittime dell’esplosione di una sola piattaforma petrolifera, la Deepwater horizon, nel golfo del Messico nel 2010 11 (fonte: BP)

Il mondo consuma 90 milioni di barili di petrolio al giorno
La strada, insomma, sembra ormai tracciata. Tuttavia, le nostre società dipendono ancora fortemente dal petrolio. Che non significa solamente benzina, ma anche plastica, asfalto, oli lubrificanti, cherosene, catrame, diesel. Si calcola che ogni giorno in tutto il mondo vengano consumati circa 90 milioni di barili di petrolio, il che equivale ad oltre 30 miliardi all’anno.

Per questo la lobby del nucleare insiste con la necessità di investire sull’atomo. Dimenticando però che anche i reattori funzionano grazie a risorse che prima o poi si esauriranno. Esistono infatti grandi riserve di uranio nel mondo, ma – come spiegato da un documentario di Dermot O’ Connor nel 2012 – se decidessimo di generare attraverso il nucleare la stessa quantità di energia elettrica prodotta oggi con i combustibili fossili, ci vorrebbero almeno 10mila centrali. Che consumerebbero le intere riserve di uranio esistenti in natura in non più di vent’anni.

Dagli Stati Uniti al Canada, scelte miopi e rischiose
Il fatto che occorrano soluzioni a più lungo termine non è dunque un’opinione bensì un dato di fatto. Ciò nonostante, decine di governi in tutto il mondo appaiono ancora ciecamente orientati ad insistere nell’estrazione di petrolio. In Italia si voterà il 17 aprile per scongiurare nuove trivellazioni in mare, autorizzate dal governo, alla ricerca di petrolio. Dall’altra parte dell’Atlantico, gli Stati Uniti hanno investito enormi quantità di denaro nello shale oil, nonostante i grandi rischi ambientali che esso comporta. Il Canada ha fatto altrettanto con le ecologicamente devastanti sabbie bituminose.

Tali nuove produzioni hanno aumentato sensibilmente l’offerta mondiale, facendo precipitare il prezzo del barile. E i paesi dell’Opec, anziché chiudere i rubinetti delle raffinerie nel tentativo di riequilibrare il mercato, hanno incrementato a livelli record la loro produzione, al fine di contrastare la concorrenza americana.

I legami tra guerra e petrolio
La corsa all’oro nero, insomma, non sembra arrestarsi né per ragioni ecologiche, né per ragioni economiche. Prova ne è il fatto che nel mondo si moltiplicano i conflitti consumati al fine di accaparrarsi pozzi, trivelle e raffinerie. Guerre che a volte esplodono anche a causa di fenomeni meteorologici estremi dovuti, in buona parte, ai cambiamenti climatici causati proprio dalle stesse fonti fossili (che rappresentano ancora oggi l’80 per cento dei consumi globali di energia).

Il caso della Siria, in questo senso è emblematico. Il paese, secondo secondo un’analisi di Le Monde, ha toccato nel 1996 quello che viene definito il “picco petrolifero”, ovvero il momento in cui la produzione di una determinata area raggiunge il suo massimo per poi ridursi progressivamente. Negli anni successivi, dunque, l’estrazione siriana ha registrato un netto calo.

Nel 2008, nel tentativo di contrastare l’esplosione del deficit pubblico, il regime di Bashar al Assad ha ridotto considerevolmente le sovvenzioni sulla benzina, che erano pari al 15 per cento del pil. Il prezzo del carburante è così triplicato dalla sera alla mattina, provocando un’inflazione eccezionale anche nei prezzi agricoli.

In Siria tre anni di siccità storica
A ciò si è aggiunto il fattore climatico: dal 2007 al 2010, la Siria ha vissuto la peggiore siccità della propria storia. Un fenomeno estremo figlio dei cambiamenti climatici alimentati proprio dall’utilizzo di fonti fossili. La disperazione della popolazione e le mire di estremisti senza scrupoli hanno così catapultato la nazione in una guerra che dura ormai da cinque anni.

Anche lo Yemen ha superato il picco petrolifero, all’inizio degli anni Duemila: in breve, la produzione è diminuita, e oggi anche a Sana’a c’è la guerra. È probabile, inoltre, che il punto di massima produzione sia stato già toccato anche dall’Algeria, e cali probabilmente irreversibili si registrano in Venezuela, Messico, Indonesia, Russia, Iran, Nigeria e Cina.

Le fonti rinnovabili: un’alternativa ecologica e sostenibile
Il mondo è perciò di fronte ad un bivio. Da un lato, continuare ad alimentare un sistema di produzione energetica insostenibile dal punto di vista ambientale, economico, sociale e climatico. Dall’altro, avviare una profonda transizione verso un nuovo modo di produrre energia: pulito, ecologico, rinnovabile, alla portata dei paesi ricchi come di quelli poveri.

Un cambiamento che permetterebbe, tra l’altro, di evitare 3,7 milioni di morti, ovvero quelli che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha attribuito, solamente nel 2012, alle conseguenze dell’inquinamento atmosferico in tutto il pianeta. Vittime alle quali si aggiungono le tante persone che perdono la vita sulle piattaforme petrolifere: solamente nel caso della Deepwater horizon – esplosa nel 2010 nel golfo del Messico causando una delle peggiori catastrofi ambientali della storia degli Usa – le vittime furono undici.

Senza dimenticare i danni ambientali che il petrolio causa a livello locale. Un solo esempio può bastare per tutti: quello dell’inquinamento causato dallo sfruttamento petrolifero nel delta del Niger, costato la vita a Ken Saro-Wiwa, militante ecologista che si batté per difendere i diritti della popolazione locale e fu ucciso al termine di un processo considerato 
una farsa da buona parte della comunità internazionale.

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Cina, Petroliera Affondata: la chiazza di petrolio estesa su oltre 100 chilometri quadrati



Cina, petroliera affondata: la chiazza di petrolio estesa su oltre 100 chilometri quadrati.
Le fiamme di superficie sono state domate: due navi cinesi hanno cominciato le attività di pulizia del greggio raffinato fuoriuscito dalla petroliera iraniana Sanchi affondata ieri, spruzzando agenti chimici allo scopo di far dissolvere il composto di gas e liquidi tossici.

Per effetto di correnti marine e modo ondoso, la `pozza´ di un chilometro quadrato si è allungata fino a coprire una decina di miglia e la larghezza di 1-4 miglia. L’area affetta dalla fuoriuscita è superiore ai 100 km quadrati, secondo la tv statale cinese Cctv.

Dopo i giorni alla deriva e in fiamme la petroliera, che il 6 gennaio si era scontrata con il mercantile Cf Crystal a 160 miglia da Shanghai, è affondatanel mar Cinese orientale nel primo pomeriggio del 14 gennaio 2017.

Si teme un vero e proprio disastro ambientale a causa dell’esplosione e delle 136 mila tonnellate di condensato ultraleggero che era diretto in Corea del Sud. Un epilogo a lungo prospettato e maturato a stretto giro dalla comunicazione iraniana dell’assenza di speranze per i 29 marinai ufficialmente dispersi. Recuperati invece i corpi degli altri tre componenti dell’equipaggio della nave, controllata dalla Bright Shipping, società di Hong Kong, per conto della statale National Iranian Tanker.


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Petroliera Affondata in Cina




Petroliera affondata in Cina, in fiamme chiazza di un km quadrato

La grande colonna di fumo denso e nero domina le acque del mar Cinese orientale all'indomani dell'affondamento della petroliera iraniana Sanchi: le immagini di questa mattina della tv statale cinese Cctv mostrano che il condensato ultraleggero fuoriuscito continua a bruciare in una enorme chiazza che si estende per circa un chilometro quadrato. 


L'incendio ha avuto origine dopo la collisione del 6 gennaio a 160 miglia da Shanghai contro il mercantile Cf Crystal: 3 corpi dei 32 membri d'equipaggio della Sanchi sono stati recuperati.


Cina, affonda petroliera iraniana con 136mila tonnellate di greggio
Timori per possibile disastro ambientale. Nessuna speranza per i 29 marinai dispersi.


E' AFFONDATA la petroliera iraniana che era entrata in collisione con un mercantile il 6 gennaio, con una successiva esplosione a bordo, nel Mar della Cina. Lo riferisce la Bbc citando media cinesi. Si teme ora un disastro ambientale. La nave trasportava 136 mila tonnellate di petrolio ultraleggero, ma le autorità cinesi assicurano che "non c'è una grossa chiazza" in mare. Poco fa l'Iran ha annunciato che non ci sono più speranze per i 29 marinai dispersi, mentre tre corpi sono stati recuperati.




La petroliera iraniana Sanchi, scontratasi lo scorso 6 gennaio nel Mar cinese orientale col mercantile CF Crystal di Hong Kong, è, secondo i media locali che citano fonti delle autorità impegnate nei soccorsi, "a rischio esplosione ed affondamento". Le ricerche dei 32 membri dell'equipaggio dispersi, di cui 30 iraniani e due cittadini del Bangladesh, non hanno ancora sortito risultati positivi, malgrado si sia aggiunto da ultimo l'apporto della Marina Usa. Ci sono forti timori per un disastro ambientale: la petroliera trasportava 136.000 tonnellate di petrolio ultra-light che in caso di fuoriuscita può risultare ancora più pericoloso del greggio.

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venerdì 12 gennaio 2018

Un Cavalluccio Marino aggrappato al cotton fioc

il dramma dell’inquinamento in uno scatto  Il fotografo americano Justin Hofman ha immortalato   un cavalluccio marino aggrappato ad un cotton fioc rosa.

 il dramma dell’inquinamento in uno scatto
Il fotografo americano Justin Hofman ha immortalato 
un cavalluccio marino aggrappato ad un cotton fioc rosa. 

L’immagine, che ha fatto il giro della rete, 
mette in mostra il dramma dell’inquinamento dei mari.


Un cavalluccio marino aggrappato a un cotton fioc rosa, solitario, nel cuore del profondo blu; un'immagine apparentemente ‘innocua', che girando sul web ha suscitato tenerezza per la particolare composizione, ma che in realtà nasconde un vero e proprio dramma del quale noi siamo i principali artefici. Il piccolo vertebrato, lungo appena 3,8 centimetri, è impegnato in un lotta serrata contro una corrente improvvisa, e per non essere spazzato via cerca un appiglio, un sostegno dove aggrapparsi con la ‘coda' prensile. 

Si lascia sfuggire un'alga filiforme, nuota sfidando l'irrequieto flusso d'acqua e trova finalmente la sua ‘zattera sottomarina', un cotton fioc sollevato dalla corrente assieme a tanti altri detriti e pezzi di plastica, emersi dal fondo come simboli del nostro oltraggio alla purezza del mondo sommerso. Sono l'emblema dell'inquinamento dei mari soffocati dai rifiuti, delle centinaia di migliaia di pesci, uccelli e mammiferi marini che li ingurgitano cercando una preda, ma trovano solo la morte.


L'immagine, scattata nel dicembre 2016 dal giovane fotografo Justin Hofman, ha fatto rapidamente il 
giro della rete e portato sotto i riflettori il dramma dell'inquinamento dei mari, in particolar modo di quelli indonesiani, dove è stata immortalato il cavalluccio marino. Non a caso dopo quelli cinesi sono i più inquinati al mondo da plastica, con ben 3,22 milioni di tonnellate di detriti riversati ogni anno. Il governo locale, messo alle strette dalle associazioni ambientaliste e da una situazione ormai insostenibile, si è impegnato con le Nazioni Unite di ridurre tale cifra del 70 percento entro il 2025.


La forza della fotografia di Hofman risiede anche nell'impatto del cotton fioc sull'immaginario collettivo, non solo per i potenziali danni ai timpani che può comportare, ma anche perché è uno degli oggetti che finisce più spesso nel water (grave negligenza) e di conseguenza in mare. Basti pensare che, in base a una recente analisi di Legambiente, il 10 percento dei rifiuti trovati sulle spiagge italiane è composto proprio da cotton fioc, con oltre settemila pezzi individuati.


Si stima che entro il 2050 il peso totale dei pesci presenti nei mari e negli oceani possa essere superato da quello della plastica; del resto ogni anno vi gettiamo oltre otto milioni di tonnellate di rifiuti composti da questo materiale. Hofman in un'intervista al Washington Post ha dichiarato che negli istanti in cui ha immortalato il cavalluccio marino gli “bolliva il sangue” dalla rabbia per lo scempio cui era costretto ad assistere. Non a caso dopo aver condiviso lo scatto con i suoi amici di Instagram ha aggiunto un'eloquente didascalia: “È una fotografia che vorrei non esistesse, 
ma adesso desidero che tutti la vedano”.

L'immagine scattata al largo della costa di Sumbawa, un'isola facente parte dell'arcipelago 
delle Piccole Isole della Sonda, è arrivata alla finale della prestigiosa competizione per la fotografia 
naturalistica “Wildlife Photographer of the Year” 2017.

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SALVIAMO GLI OCEANI DALLA PLASTICA
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Bolzano: i sacchetti sono biodegradabili ma non vanno nell'organico


In pochi hanno salutato con giubilo la legge che impone il pagamento per i sacchetti biodegradabili da usare al supermercato per pesare la frutta e la verdura. Le proteste sono state veementi e hanno 
inondato i social per giorni. L'ultima beffa riguarda i cittadini di Bolzano e provincia: secondo l'agenzia provinciale per l'ambiente, infatti, i loro sacchetti non possono finire nella raccolta differenziata dell'organico e non possono dunque essere 
usati per raccogliere bucce di banana o simili.

Secondo quanto scrive l'Alto Adige, in questi giorni tra i cittadini di Bolzano erano sorti alcuni dubbi sulla possibilità di raccogliere quei sacchetti col l'organico nel territorio altoatesino. Essi, infatti, hanno tempo di abbattimenti inadeguati per gli impianti di compostaggio e fermentazione in uso in provincia di Bolzano per il trattamento dei rifiuti organici. Tradotto: non vanno bene. Quindi per quanto biologici e biodegradabili, non possono finire insieme agli scarti del pranzo e della cena.

Negli impianti i rifiuti organici vengono trasformati in biogas, ma l'eccessivo tempo di degradazione delle buste bio renderebbe il processo troppo lento e inadeguato. Non solo. Perché potrebbero sorgere problemi anche da un punto di vista meccanico, visto che - nel caso dell'Alto Adige - c'è il rischio che i sacchetti finiscano a rovinare gli ingranaggi delle macchine del sito di compostaggio.

Altrove in Italia non ci sono questi problemi. Il Consorzio Italiano Compostatori (Cic), infatti, aveva 
spiegato all'Ansa che nella quasi totalità accettano e gestiscono senza alcun problema i sacchetti in 
plastica compostabile nel flusso di organico conferito, sia nel caso di processi biologici di solo 
compostaggio che nei processi integrati digestione/compostaggio. Il problema qui è un altro: le etichette con il peso e il costo della frutta non sono bio, 
quindi andrebbero staccate prima di gettare il sacchetto.


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Bufale sui Sacchetti di Plastica
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giovedì 4 gennaio 2018

Bufale sui Sacchetti di Plastica



Quattro bufale sui sacchetti della frutta 
che hanno provocato la “rivolta” social 

Abbiamo chiesto alla parlamentare Stella Bianchi, prima firmataria dell’emendamento che ha introdotto la nuova normativa.

In questi giorni, complici anche i social network, abbiamo assistito a una vera rivolta. Gente che carica i propri carrelli spesso con frutta e verdura esotiche o fuori stagione, a prezzi esorbitanti che improvvisamente scopre che i sacchetti nei quali sono contenuti hanno un prezzo. Quell’1 o 2 centesimi in più a sacchetto hanno scatenato una polemica fuori dal normale e che si sarebbe evitata con una corretta informazione e, magari, un po’ di logica. Ovviamente tante informazioni non corrette che sono circolate in questi giorni non hanno aiutato. Abbiamo cercato di smontare qualche bufala che sta circolando da qualche giorno riguardo alle nuove buste in materiale compostabile insieme alla parlamentare Stella Bianchi, prima firmataria dell’emendamento che ha introdotto questa nuova normativa.

Perché è stato introdotto tramite emendamento nel Dl Mezzogiorno?
Si tratta solo di una questione tecnica, di tempi. Abbiamo recepito la direttiva europea 2015/720 sulla riduzione dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero, che l’Italia era obbligata a recepire. All’inizio del 2017 si è aperta una procedura di infrazione europea nei confronti del nostro Paese perché non avevamo ancora recepito questa direttiva. Il ministero dell’Ambiente ha quindi iniziato a predisporre le norme necessarie per recepirla e queste norme passano nelle commissioni competenti di Camera e Senato, hanno parere favorevole, vengono notificate all’Ue ma non si riesce a completare il percorso perché si incrociano due procedure diverse sullo stesso argomento a livello europeo. A quel punto a mia firma, a nome di tutto il gruppo in ottava commissione, presentiamo un emendamento alla legge europea, la legge che regola l’adempimento degli obblighi dell’Italia in quanto membro Ue. Il percorso della legge europea è lungo per cui in quel modo non saremmo riusciti a evitare che partissero le multe della procedura di infrazione. Per cui il governo introduce questo emendamento, che è esattamente il decreto predisposto dal ministero dell’Ambiente, nel Dl Mezzogiorno che è in quel momento in discussione in Senato e quindi è stato approvato in questo modo, qualche giorno prima che partissero la procedura di infrazione e le multe.

Perché da ora in poi le buste del reparto ortofrutta si pagheranno?
Abbiamo sempre pagato i sacchetti della frutta e della verdura. Il costo dei sacchetti di plastica che abbiamo usato finora sono sempre stati spalmati sul prezzo finale del supermercato, come succede con tutti i costi di funzionamento. Ora ci accorgiamo di pagarle, il prezzo risulta sullo scontrino e questo è stato deciso perché uno degli obiettivi della direttiva era aumentare la consapevolezza dei cittadini europei sul fatto che la plastica è un costo 
e quale modo migliore per rendersene conto se non questo?

Perché non è stato deciso per legge il prezzo dei sacchetti?
Non c’è un prezzo fissato dalla legge, perché la legge non può imporre un prezzo a un prodotto. Però le grandi catene di distribuzione stanno facendo pagare i sacchetti generalmente 1 o 2 centesimi, visto che si stima usiamo ogni anno all’incirca 150 sacchetti arriveremo a spendere da 1,5 a 3 euro. Ovviamente parliamo di speculazione se troviamo sacchetti a 5-10 centesimi. In più questi sacchetti ci sono utili per la raccolta dell’umido che altrimenti dovremmo comprare a parte, 
pagandoli di più oltretutto.


C’è chi dice che l’emendamento è stato fatto per far guadagnare un’azienda in particolare, la Novamont che produce sacchetti in materiale compostabile.
Ovviamente no. Novamont non è l’unica impresa italiana che realizza sacchetti prodotti da materie prime naturali anziché da petrolio. In tutta Italia sono oltre 150 le aziende di questo settore con circa 4mila dipendenti e 350 milioni di fatturato. Noi dobbiamo essere quelli che sostengono la riconversione ecologica dell’economia. La plastica tradizionale prodotta dal petrolio se la smaltisci correttamente e la ricicli ridiventa materia prima seconda, ma se viene abbandonata, come spesso succede, finendo nei campi e nei mari, danneggia per secoli e secoli quegli ambienti. Abbiamo un problema enorme di inquinamento dei mari da plastica, motivo per cui abbiamo cercato di sostenere la riduzione dell’uso e dell’abbandono di certi prodotti. Quindi, l’obiettivo di sostenere il più possibile l’uso di prodotti fatti da materia prima seconda ossia da plastica riciclata o da chimica verde è assolutamente centrale se vogliamo trasformare l’economia in modo che sia più rispettosa dell’ambiente. Questo è il risultato del recepimento di una direttiva europea, ma ogni provvedimento che prevede la riduzione dell’uso di plastica tradizionale fatta dal petrolio e incoraggia l’uso di plastica riciclata o compostabile è un provvedimento assolutamente virtuoso.

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martedì 2 gennaio 2018

Il cielo nel 2018

la Luna Blu del 2010


Il cielo nel 2018

Tutto il mondo ha da poco salutato il 2017 per iniziare con entusiasmo e speranza il nuovo anno: molti si affidano, speranzosi, alla lettura di oroscopi, 
ma cosa ci riserverà veramente il cielo del 2018?

E' una sfida all'ultimo raggio di luce a inaugurare il cielo di gennaio: a lanciare il guanto è la Luna, che questo mese appare 'super' per ben due volte, con tanto di eclissi ed effetti speciali, per rubare la scena alle stelle cadenti e perfino al Sole, 
che alla distanza minima dalla Terra appare in versione 'extra large'.

Ad anticipare le fasi più concitate di questo scontro tra titani celesti sono gli esperti dell'Unione Astrofili Italiani (Uai). "Il primo gennaio, alle ore 22:56, la Luna raggiungerà la minima distanza dalla Terra per quest'anno, (pari a circa 356.000 chilometri) e poche ore dopo, alle 3:25 del 2 gennaio, sarà piena": ecco dunque servita la prima Superluna del mese.

"Anche la Luna piena del 31 gennaio sarà relativamente super, visto che sarà a quasi 359.000 chilometri dalla Terra. Costituirà inoltre un 'guazzabuglio cromatico': essendo la seconda Luna piena del mese, viene infatti definita dagli anglosassoni 'Luna blu' (Blue Moon), ma in questo caso sarà anche una Luna Rossa, per via dell'eclissi totale di Luna, visibile da Asia, Australia e costa occidentale del Nord America".

Tra apparizioni ed effetti speciali, la Luna proverà a rubare la scena al Sole, che il 3 gennaio avrà il suo massimo diametro apparente dell'anno quando la Terra raggiungerà il perielio, cioè il punto di minima distanza (pari a 147 milioni di chilometri).

Forte la rivalità anche con le prime stelle cadenti dell'anno, le Quadrantidi, il cui spettacolo (previsto nella notte tra 3 e 4 gennaio) sarà fortemente penalizzato dal disturbo della luce lunare.

I pianeti assisteranno a questi scontri da dietro le quinte, rimanendo inosservabili oppure facendo capolino solo al mattino presto. Nel frattempo si daranno di gomito: Marte e Giove saranno in congiunzione la mattina del 7 gennaio prima dell'alba, e l'11 gennaio si avvicineranno alla Luna; stesso copione per Saturno e Mercurio, che si incontreranno il 13 gennaio e due giorni dopo proveranno ad unirsi alla Luna.

Dal punto di vista astronomico sarà sicuramente un cielo rosso fuoco, si preannuncia, infatti, come ‘evento astronomico dell’anno’ l’incontro ravvicinato tra Luna e Marte, che avverrà il 27 luglio 2018 . Il pianeta rosso sarà di nuovo all’opposizione rispetto al Sole e sarà al fianco della Luna, anche lei rossa per effetto dell’ombra dell’eclissi totale (ricordiamo che sarà la prima eclissi visibile dall’Italia dopo quella del settembre 2015). L’insolita coppia celeste si terrà compagnia per più di un’ora e sarà una ‘chicca tutta da fotografare’.

L’incontro tra Luna e Marte, non sarà l’unico spettacolo del 2018, perché, come anticipa l’astrofisico Gianluca Masi (responsabile del Virtual Telescope): “Il 2018 si apre con ben due superlune, ovvero due lune piene che appariranno ancora più grandi perché prossime alla minima distanza dalla Terra”.

La prima è stata già visibile nella notte tra il primo ed il 2 gennaio, mentre l’altra, definita ‘bluemoon’ (perché è la seconda luna piena del mese), sarà invece visibile il 31 gennaio. Quello stesso giorno si verificherà anche la prima eclissi di Luna totale dell’anno, visibile da Australia, Nord America, Estremo Oriente ed Oceano Pacifico. In Italia l’eclissi lunare totale si avrà invece il 27 luglio, momento culmine di un’estate astronomica molto movimentata: ad annunciarla saranno infatti Giove e Saturno, che raggiungeranno l’opposizione rispettivamente il 9 maggio e il 27 giugno. Appariranno dunque nel loro ‘abito’ migliore quando, da metà giugno fino ad inizio luglio, tutti i pianeti conosciuti fin dall’antichità saranno visibili di notte:
 Mercurio, Venere, Saturno, Giove e Marte.

Per tutti i romantici ed innamorati, segnaliamo, poi, che Venere tornerà prepotentemente sulla scena proprio il 17 agosto salutando le ultime meteore Perseidi, le famose ‘lacrime di San Lorenzo’, che nel 2018 ricordiamo culmineranno il 12 agosto.

“Condizioni di osservabilità molto favorevoli ci saranno anche per le Geminidi di dicembre, che chiuderanno un’annata Doc per le meteore”. A concludere il 2018, intorno al 16 dicembre, sarà protagonista una splendida cometa di Natale, 46P/Wirtanen, che spiega l’astrofisico Gianluca Masi: “passerà a 11,6 milioni di chilometri dalla Terra, con una luminosità che potrebbe renderla visibile a occhio nudo”.

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