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sabato 30 marzo 2019

Pianta che Purifica l’Aria di Casa

Pianta che Purifica l’Aria di Casa

ne basta una per avere aria perfetta


 Anche se il nome ti è nuovo, basta guardare la foto per rendersi conto di aver visto questa pianta centinaia di volte, nelle case o negli uffici. In pochi sanno, però, che questa pianta ha la grandissima capacità di depurare e purificare l’aria di casa.
Una delle piante d’appartamento più diffuse e usate è il falangio.

Il falangio è una pianta molto resistente, e facile da mantenere. Può essere coltivata anche sul balcone, in caso di climi più caldi che non scendano al di sotto dei 2° C nei mesi invernali. Bisogna comunque fare attenzione, perché seppur facile da mantenere, è una pianta invasiva, che andrebbe tenuta lontana dai luoghi pubblici.

Qualche anno fa, la NASA ha condotto uno studio per dimostrare la capacità delle piante nel purificare l’aria in condizioni estreme. Allo studio è seguito un elenco delle piante più efficaci, fra le quali è presente anche il falangio.

Questa pianta è capace di eliminare sostanze contaminanti pericolose e nocive per la nostra salute, come il monossido di carbonio (proveniente dalla combustione di gas, benzina, carbone e tabacco, da stufe, fornelli, termosifoni e auto) e xilene (presente, ad esempio, in alcuni mobili).

Questi componenti sono molto dannosi per la nostra salute, anche se è difficile che le nostre case presentino quantità davvero elevate o pericolose. Ad ogni modo, si consiglia l’uso del falangio in casa, per eliminare le piccole quantità di sostanze nocive presenti nell’aria.


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lunedì 18 marzo 2019

Cina : blocco delle importazioni di rifiuti

A un anno dal blocco delle importazioni di rifiuti   da parte della Cina molte città sono tornate agli inceneritori: uno dei problemi,   però, è proprio la raccolta differenziata per colpa dei Cittadini Pigri.

A un anno dal blocco delle importazioni di rifiuti 
da parte della Cina molte città sono tornate agli inceneritori: uno dei problemi, 
però, è proprio la raccolta differenziata per colpa dei Cittadini Pigri.

A partire dagli anni Ottanta i paesi industrializzati hanno iniziato a esportare gran parte dei loro rifiuti da riciclare verso la Cina, un mercato in espansione disponibile ad accontentarsi anche di rifiuti di bassa qualità per trasformarli in materie prime. Solo per quanto riguarda la plastica si calcola che dal 1992 – cioè da quando si è cominciato a raccogliere dati a riguardo – la Cina abbia ricevuto il 45 per cento di tutti i rifiuti prodotti, arrivando nel 2016 ad assorbire più del 70 per cento di tutti i rifiuti di plastica. La Cina prendeva dai rifiuti quello che poteva riciclare e bruciava il resto, sopperendo a una carenza di materia prima causata dall’ancora diffusa povertà del paese.

Tutto questo è stato possibile fino a quando, nell’estate del 2017, il governo cinese ha deciso di diminuire le importazioni dei rifiuti plastici e cartacei, imponendo a partire dal 1 gennaio 2018 il blocco delle importazioni di 24 tipologie di rifiuti, tra cui plastica, carta da macero e scarti tessili, a cui nel 2019 sono state aggiunte altre 16 tipologie, tra cui rottami di auto e navi demolite. Si trattava infatti di materiale considerato di bassa qualità, i cui costi di importazione e riciclaggio non erano più convenienti per il mercato cinese. La Cina ha deciso quindi di importare solo rifiuti “di qualità”, più facilmente riciclabili, ma ha provocato problemi enormi, che a cascata riguardano tutti i paesi che per anni avevano venduto alla Cina i loro rifiuti.

Un mercato in stallo
Questi problemi, negli ultimi mesi, abbiamo imparato a conoscerli bene anche in Italia, ma negli Stati Uniti si stanno verificando in scala molto maggiore. Gli Stati Uniti sono stati infatti i più grandi esportatori di rifiuti verso la Cina, e il blocco delle importazioni deciso dal governo cinese ha significato un improvviso stallo nel riciclo dei rifiuti, oltre che un aumento dei costi. Molte città si sono trovate a dover scegliere tra pagare molto di più per riciclare i propri rifiuti negli impianti statunitensi, oppure disfarsi di tutti i i rifiuti, anche quelli frutto della raccolta differenziata, in discariche e inceneritori (in Italia sono chiamati anche termovalorizzatori quando il calore prodotto dalla combustione dei rifiuti viene utilizzato per produrre energia elettrica).

Alana Semuels ha raccontato in un articolo sull’Atlantic come nel concreto questo stia modificando il processo di riciclo negli Stati Uniti, mostrando i casi di diverse amministrazioni cittadine che si sono ritrovate a dover rinunciare a fare la raccolta differenziata, a causa di un mercato senza sbocchi. A Franklyn, nel New Hampshire, per esempio, il costo per il riciclo dei rifiuti è passato da 6 dollari per tonnellata del 2010 ai 125 dollari per tonnellata attuali, una cifra insostenibile per una città dove gli abitanti vivono in gran parte sotto la soglia di povertà. E quindi: ha ancora senso stare a dividere plastica e carta, se poi alla fine non possiamo far altro che bruciare tutto?

L’alternativa, più economica, è infatti stata quella di portare tutti i rifiuti indistintamente negli inceneritori, al costo di 68 dollari per tonnellata. È quello che è successo anche a Broadway, in Virginia, che ha sospeso la raccolta differenziata dopo 22 anni, e nella contea di Blaine, nell’Idaho, che si è vista costretta a portare in discarica le balle di rifiuti che si erano accumulate nei depositi in attesa di essere riciclate.

Aumentano discariche e rifiuti inceneriti
Il Guardian ha raccontato la storia di Chester, un città della Pennsylvania dove si trova un grande inceneritore dell’azienda Covanta. Da quando è attivo il blocco delle importazioni in Cina, nell’inceneritore di Chester arrivano ogni giorno 200 tonnellate di rifiuti riciclabili che non trovano altra destinazione. Solo una piccola parte di tutta questa spazzatura, però, arriva dalla città di Chester: gran parte dei rifiuti che vengono inceneriti lì proviene infatti dallo stato di New York, dall’Ohio, dal North Carolina e da molti altri stati.

Questa grande quantità di rifiuti crea anche un secondo problema: preoccupazione principale degli abitanti di Chester è che i fumi dall’inceneritore emettano sostanze tossiche che possano causare danni alla salute dei cittadini, in particolare quelli che abitano nei pressi dell’impianto, che spesso appartengono a minoranze etniche e sociali.

Nonostante tra i cittadini di Chester si registri una percentuale di cancro alle ovaie 24 volte maggiore che nel resto della Pennsylvania, e nonostante circa il 40 per cento dei bambini soffra di asma, l’azienda Covanta ha sempre detto di aver fatto tutti i controlli necessari per verificare la qualità dell’aria nella città, sostenendo che le emissioni di diossina siano molto al di sotto del limite consentito. Covanta ha anche sempre sostenuto che gli inceneritori siano il male minore in casi come questo, dato che l’alternativa sarebbe spedire depositare i rifiuti in discarica. «In termini di gas serra – ha detto Paul Gilman, responsabile della sostenibilità ambientale di Covanta – è molto meglio mandare i prodotti riciclabili in un impianto che recuperi energia, vista la quantità di metano che viene prodotta dai rifiuti lasciati in discarica».

Come si risolve questa situazione?
Secondo uno studio pubblicato lo scorso giugno sulla rivista scientifica Science Advance, il blocco delle importazioni di rifiuti da parte della Cina comporterà che entro il 2030 ci saranno 111 milioni di tonnellate di rifiuti di cui non sapremo cosa fare. Alcuni paesi hanno spostato le rotte dei propri rifiuti verso paesi del sud-est asiatico come Malesia e Vietnam, che però hanno a loro volta annunciato di voler seguire l’esempio cinese e smettere di importare rifiuti di bassa qualità dall’estero. E gli Stati Uniti producono proprio rifiuti “di bassa qualità”.

Sull’Atlantic, Semuels ha spiegato che per anni molti statunitensi – anche i meglio intenzionati – hanno riciclato “male”. Secondo la National Waste & Recycling Association, un’associazione che raggruppa le società che si occupano del riciclo e del recupero dei rifiuti negli Stati Uniti, circa il 25 per cento dei rifiuti che i cittadini statunitensi inseriscono nei bidoni che raccolgono insieme plastica e carta (un sistema di raccolta introdotto negli Stati Uniti negli anni Novanta per risparmiare sui costi di trasporto e incentivare le persone a non gettare i rifiuti nell’indifferenziata) è composto da materiale contaminato, e che quindi non può essere “riciclato” 
se prima non viene pulito, in qualche modo.

Inserire cartoni della pizza con avanzi di cibo, bottiglie sporche e altri rifiuti contaminati non ha rappresentato un gran problema fintanto che la Cina comprava rifiuti di qualunque tipo. È nessuno si era posto il problema di insegnare davvero come differenziare i rifiuti, specialmente quelli di plastica e carta, dato che c’era qualche lavoratore sottopagato 
che lo faceva in Cina al posto dei cittadini statunitensi.

Rimediare a questa situazione, negli Stati Uniti, al momento significa assumere personale perché pulisca i rifiuti che i cittadini non hanno differenziato bene, facendo salire di conseguenza i costi per chi poi vuole acquistare le materie prime secondarie, cioè derivate dal riciclo. In sostanza per un’azienda è più economico acquistare materie prime “vergini”, piuttosto che riciclate, anche se si tratta solo di qualche centesimo in più per prodotto.

Debbie Raphael, direttrice del dipartimento per l’Ambiente della città di San Francisco, sostiene che l’unico modo sensato per rimediare a questa situazione sia di usare molta meno plastica. Alle tre R di “Riduci, Riusa e Ricicla”, i capisaldi dell’economia circolare dei rifiuti, andrebbe secondo lei aggiunta una quarta “R”: Rifiuta. In un periodo come questo, secondo Raphael, non basta differenziare correttamente i propri rifiuti, pulendoli, selezionandoli ed evitando di contaminarli. Bisogna rifiutarsi di utilizzarne alcuni che poi saranno più difficili da riciclare, 
come ad esempio gli imballaggi in plastica.


È chiaro che il nostro stile di vita ha il suo peso.   Nella nostra società non è praticamente possibile   vivere senza inquinare in modo significativo,   il che ci impone la prospettiva di uno stile di vita sostenibile   a livello globale, che riduca al massimo il nostro impatto ambientale...


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Capitalismo = Inquinamento, Sfruttamento, Oppressione

Capitalismo = Inquinamento, Sfruttamento, Oppressione

Inquinamento, Sfruttamento, Oppressione 
hanno la Stessa Radice: Il Capitalismo!

Dichiarazione della FIR in occasione del Global Strike for Future indetto da Greta Thunberg e dal movimento studentesco di decine di paesi in tutti i continenti: una giornata di sciopero studentesco mondiale contro l’inquinamento e per la salvaguardia dell’ambiente e del nostro pianeta.

Capitalismo = Inquinamento, Sfruttamento, Oppressione

Capitalismo = Inquinamento, Sfruttamento, Oppressione

L’aumento drastico e costante della temperatura che si è verificato a partire dallo scorso secolo è un dato verificabile nelle rilevazioni di diversi osservatori ed enti internazionali (come l’osservatorio di Mauna Loa e il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico). Se è vero che la temperatura del nostro pianeta ha subito significative oscillazioni negli ultimi 2000 anni, è tuttavia difficile negare che il rapido riscaldamento registrato nell’ultimo secolo è andato di pari passo all’aumento dell’emissione di anidride carbonica (Co2) e metano nell’atmosfera.

Le conseguenze di questo processo, anche se difficili da prevedere precisamente per i prossimi decenni, sono preoccupanti. Si va dall’innalzamento del livello dei mari (già 15 cm dal 1870 secondo la NASA) all’aumento per numero e intensità di alluvioni, cicloni, ondate di caldo e siccità e di gelo.

Capitalismo = Inquinamento, Sfruttamento, Oppressione

Non ci sono dubbi, al di là della marea di fake-news negazioniste, che di questo passo la Terra potrà sopravvivere, ma l’uomo va verso la distruzione del suo stesso ecosistema.

È chiaro che il nostro stile di vita ha il suo peso. Nella nostra società non è praticamente possibile vivere senza inquinare in modo significativo, il che ci impone la prospettiva di uno stile di vita sostenibile a livello globale, che riduca al massimo il nostro impatto ambientale. È vero però che il diffondersi della cultura ecologica, di gruppi di pressione verso governi e istituzioni e di campagne di boicottaggio contro le multinazionali che distruggono maggiormente l’ambiente (McDonald’s, H&M e tante altre), per quanto sia un segnale positivo, non ottiene neanche lontanamente un cambiamento soddisfacente, e si scontra con lo scoglio insormontabile del controllo politico e dei finanziamenti diretti ai partiti delle democrazie occidentali, e non solo, da parte dei grandi padroni industriali e finanziari: gli stessi grandi responsabili dell’inquinamento! Proprio per questo, è controproducente isolare il tema dell’ecologia dall’economia e dalla politica: una multinazionale potrà cedere, una tantum, ad una campagna ambientalista riducendo ad esempio l’emissione di Co2, ma la perdita di profitto è compensata da altre devastazioni ambientali e sociali, a partire da uno sfruttamento più intenso e dal licenziamento di lavoratori.

Lavoratori che, ovviamente, sono coloro che risentiranno maggiormente dell’inquinamento stesso, disponendo di meno risorse per condurre uno stile di vita più sano e curare la propria salute. Proprio per questo, nessun comportamento individuale o di gruppi “all’avanguardia” risulta una vera minaccia per il sistema sfruttatore e inquinante nel suo complesso: il capitalismo rimane insostenibile, umanamente ed ecologicamente.

Se una lotta ambientalista vuole realmente incidere, essa non deve cercare un improbabile dialogo con la classe che sfrutta e inquina né coi suoi rappresentanti politici, ma allacciarsi alla lotta di classe, basarsi sulla forza della classe lavoratrice e di tutti gli oppressi suoi alleati, per un’unica lotta politica contro il capitalismo e per una società ecologica e sostenibile: una società che può ancora vedere la luce, prima che sopravvenga una catastrofe irreparabile, togliendo le leve dell’economia di mano a pochi sfruttatori guidati dal profitto, e mettendole sotto il controllo dei molti sfruttati, guidati dal desiderio di pace e armonia fra se stessi e con l’ambiente intorno a sé.

Salvare la Terra è possibile: basta gettare il capitalismo nella pattumiera della storia!

Frazione Internazionalista Rivoluzionaria

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venerdì 15 marzo 2019

Greta : Sul clima dovete entrare nel panico

A Davos l'appello di Greta, la 16enne ecologista: "Sul clima dovete entrare nel panico"


A Davos l'appello di Greta, la 16enne ecologista:
 "Sul clima dovete entrare nel panico"

È diventata un'icona della lotta contro i cambiamenti climatici per aver manifestato, da sola, ogni settimana davanti al Parlamento svedese, allo scopo di sensibilizzare la politica e l'opinione pubblica mondiale sui disastri dell'ambiente. Oggi ha parlato davanti ai potenti dell'economia.


DAVOS - “La nostra casa è in fiamme”: Greta Thunberg ha viaggiato a lungo, 32 ore di treno, per venire a Davos e consegnare il suo messaggio alla platea dei potenti del Forum economico mondiale. Ed è diventata immediatamente la star dell’ultima giornata. Alla sorridente e commossa platea che l’ha ascoltata in un religioso silenzio, l’attivista sedicenne ha indirizzato un discorso durissimo: “qui a Davos amate parlare di storie di successo
 ma questo successo finanziario è costato un prezzo immenso”. 

Greta non prende più l’aereo per alleggerire la sua impronta ecologica, e ha convinto persino la madre, cha fa la cantante lirica, a imitarla. Tutta la famiglia è diventata vegetariana, come lei. E insieme ad altri attivisti giovanissimi che l'hanno seguita qui, Greta dormirà non in albergo o in un appartamento, come tutti i partecipanti del Forum, ma in una tenda montata accanto al leggendario Schatzalp, l’albergo della “Montagna incantata” di Thomas Mann. 

La ragazza svedese diventata famosa in tutto il mondo per i suoi scioperi scolastici contro i cambiamenti climatici e i suoi sit-in davanti al parlamento svedese ha scandito che siamo a 12 anni da una catastrofe, "dall'essere incapaci di correggere i nostri errori". Anche qui a Davos ha rinnovato la sua richiesta ai politici, ai banchieri, agli assi dell’economia e della finanza, chi potrebbe davvero cambiare le cose: "dobbiamo ridurre la produzione di C02 del 50%". 

E al momento dell’affondo, gli occhi che saltavano nervosamente dal foglio alla platea hanno indugiato qualche istante in più sul pubblico: "Non voglio che speriate, vi voglio vedere nel panico. Voglio che sentiate quello che sento io tutti i giorni". 




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sabato 2 marzo 2019

Quanto è profonda la Plastica nei Mari

Quanto è profonda la Plastica nei Mari


 Trovata nei pesci 11 km sotto alla superficie


Partiti per studiare le creature degli abissi, dei biologi inglesi hanno trovato microplastica nelle pance di alcuni gamberetti. Sei fosse oceaniche, inclusa quella delle Marianne, contengono residui di nylon e altre fibre artificiali. "Non esiste più un punto del mare non inquinato"

di ELENA DUSI

Cercavano nuove specie viventi negli abissi degli oceani. E hanno trovato la plastica. Un gruppo di biologi inglesi ha calato i suoi “ami” fino a 11mila metri di profondità, nella Fossa delle Marianne. Ha pescato gamberetti capaci di vivere in condizioni estreme di buio e pressione, oltre 6mila metri sotto alla superficie. Uno dei primi indizi che i ricercatori osservano in questi casi è il contenuto dello stomaco. Nel loro apparato digerente sono spuntate minuscole fibre di plastica, per lo più nylon o altri filati sintetici provenienti dai nostri vestiti. Erano sminuzzate e degradate da anni trascorsi nell’acqua salata, ma conservavano ancora la loro tinta nitida.

“Dentro di me mi aspettavo qualcosa di simile. Ma non fino a questo punto” racconta Alan Jamieson, ecologo marino dell’università di Newcastle. E’ lui il primo autore di uno studio pubblicato sulla rivista Royal Society Open Science. I biologi, curiosamente, hanno anche stilato la classifica delle tinte più di moda in fondo al mare. Quattro microplastiche su cinque sono blu, colore particolarmente in voga nella Fossa delle Marianne (lì non c'erano tinte alternative). Seguono nero e rosso. In fondo alle preferenze viola e rosa.

La spedizione inglese ha raggiunto sei fosse oceaniche, cinque sul lato occidentale del Pacifico e una sul lato orientale, al largo del Cile, tra il 2008 e il 2017. Ha calato delle reti a imbuto e pescato 90 esemplari di Lysianassoidea, un crostaceo di pochi centimetri che disdegna profondità inferiori ai sei chilometri e che – come molte creature degli abissi - ha un aspetto spettrale, con il corpo pallido o semitrasparente. Questo animale ha la necessità di non essere schizzinoso in fatto di dieta: in quei deserti in fondo al mare, giocoforza, si mangia un po’ tutto quello che cade dall’alto. E 65 degli esemplari pescati avevano una o più fibre di plastica nei loro intestini. La percentuale più bassa era nella Fossa delle Nuove Ebridi, a est dell’Australia (il 50% dei campioni era inquinato). La più alta nella Fossa delle Marianne, incluso a Challenger Deep, che a 10.890 metri è il punto più profondo della Terra. Qui il 100% dei gamberetti aveva almeno un frammento di plastica in pancia, lungo più o meno un millimetro. Facendo la proporzione, spiega Jamieson: "E' come se un uomo mangiasse una corda di due metri".


L’inquinante forse più diffuso del mondo era già stato trovato nella Fossa delle Marianne, ma nell’acqua, non nelle creature degli abissi. Il record di profondità, per una creatura con la plastica in pancia, era fino a ieri di 2.200 metri, nell'Atlantico del Nord. Si stima che fra i 300 milioni di tonnellate di questo materiale prodotte ogni anno, 250mila tonnellate fluttuino oggi nei mari, sminuzzati dal sole e dall'acqua salata, sparpagliata in 5 miliardi di frammenti. Le conseguenze sulla salute degli esseri viventi non sono state ancora studiate in modo approfondito. Le prime osservazioni indicano che la plastica provoca una leggera infiammazione dei tessuti dell’intestino (l’infiammazione è una condizione che può favorire il cancro), ma soprattutto può legarsi alle sostanze chimiche più varie, fungendo da “cavallo di Troia” per altri inquinanti pericolosi.


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Agli inizi del Novecento l’Italia produceva più canapa di quanta se ne produca oggi in tutto il mondo, dedicando oltre 90mila ettari alla coltivazione di questo vegetale. Nel nostro Paese, in base alle diverse lavorazioni, se ne ricavavano fibre tessili, corde, carta e oli commestibili.
Poi il regime fascista dichiarò l’hashish nemico della razza e droga da “negri”, contribuendo ai malintesi tutt’ora presenti nella nostra società, perché creò confusione tra i termini di cannabis, marjuana e hashish: la prima indica infatti la pianta nella sua totalità, la seconda intende i fiori mentre la terza consiste nella resina estratta dai fiori e solo gli ultimi due, 
se assunti in determinati modi, hanno effetti psicotropi...

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venerdì 1 marzo 2019

ALTERNATIVA alla PLASTICA : la CANAPA

LA CANAPA È UN’ALTERNATIVA VALIDA ALLA PLASTICA


LA CANAPA È UN’ALTERNATIVA VALIDA ALLA PLASTICA

Il 24 ottobre scorso il Parlamento europeo ha approvato una proposta di Direttiva, elaborata dalla Commissione, sulla riduzione del consumo in tutta l’Unione europea dei prodotti di plastica usa e getta. Secondo i calcoli, questa tipologia di oggetti costituisce il 70% dei rifiuti presenti negli oceani, motivo di diverse problematiche urgenti, prima di tutto in termini di salute. A causa della sua lenta decomposizione infatti, la plastica si accumula nei mari, rilasciando piccoli residui che vengono ingeriti dalle specie marine ed entrano nella catena alimentare, di cui ovviamente è parte anche l’essere umano. Inoltre, l’inquinamento dei mari ha un impatto economico: il costo per l’Ue dei danni dovuti al degrado causato dalla plastica che si deposita sulle spiagge è stimato tra i 259 e 695 milioni di euro all’anno, e provoca ingenti perdite principalmente al settore turistico. La nuova normativa vieterà, a partire dal 2021, la vendita all’interno dell’Unione di articoli in plastica monouso come posate, bastoncini cotonati, piatti, cannucce, miscelatori per bevande e bastoncini per palloncini. Gli Stati membri entro il 2025 dovranno ridurre del 25% il consumo dei prodotti in plastica per i quali non esistono alternative. Per quanto riguarda le altre materie plastiche, come le bottiglie per bevande, dovranno essere raccolte separatamente e riciclate al 90% sempre entro il 2025.

Tra gli europarlamentari contrari alla Direttiva – tra cui, tra gli italiani, alcuni esponenti del Partito democratico, di Forza Italia e della Lega – hanno denunciato l’eccessiva fretta, le mancate valutazioni sull’impatto economico e un presunto approccio ideologico della proposta di direttiva. Uno dei temi che sta più a cuore a questa strana triade è l’effetto del divieto sull’occupazione, dato che in Italia operano 25 imprese che producono unicamente prodotti monouso in plastica. La normativa europea, però, non si esaurisce nell’imposizione di divieti, ma prevede per gli Stati membri la necessità di elaborare piani nazionali per incoraggiare l’uso di prodotti adatti ad uso multiplo, nonché il riutilizzo e il riciclo. Proprio l’Italia, allora, potrebbe trarre grandi vantaggi dal promuovere l’avvio di nuove imprese nel settore delle bioplastiche, e questo perché la storia industriale italiana fornisce un interessante spunto: la filiera agroindustriale della canapa.


Agli inizi del Novecento l’Italia produceva più canapa di quanta se ne produca oggi in tutto il mondo, dedicando oltre 90mila ettari alla coltivazione di questo vegetale. Nel nostro Paese, in base alle diverse lavorazioni, se ne ricavavano fibre tessili, corde, carta e oli commestibili. A molti risulterà strano date le attuali controversie politiche, ma nel nostro recente passato, sicuramente di stampo non progressista, persino Benito Mussolini, in un primo momento, ne aveva riconosciuto le doti. “La Canapa è stata posta dal Duce all’ordine del giorno della nazione,” affermò nel 1925. “Per eccellenza autarchica è destinata ad emanciparci quanto più possibile dal gravoso tributo che abbiamo ancora verso l’estero nel settore delle fibre tessili. Non è solo il lato economico agrario, c’è anche il lato sociale la cui incidenza non potrebbe essere posta meglio in luce che dalla seguente cifra: 30mila operai ai quali dà lavoro l’industria canapiera italiana”.  Ma dopo solo pochi anni aver diffuso questo annuncio, il regime fascista dichiarò l’hashish nemico della razza e droga da “negri”, contribuendo ai malintesi tutt’ora presenti nella nostra società, perché creò confusione tra i termini di cannabis, marjuana e hashish: la prima indica infatti la pianta nella sua totalità, la seconda intende i fiori mentre la terza consiste nella resina estratta dai fiori e solo gli ultimi due, 
se assunti in determinati modi, hanno effetti psicotropi.


  Lo stesso Henry Ford, per dimostrare ai giornalisti e al pubblico l’elasticità e la resistenza del nuovo tipo di carrozzeria, si fece filmare mentre colpiva violentemente con una mazza di ferro il retro della Hemp body car senza che questa neppure si ammaccasse.

Henry Ford realizzò la prima vettura interamente costituita di plastica di canapa, più leggera ma anche più resistente delle normali carrozzerie in metallo, e alimentata da etanolo prodotto dallo stesso vegetale.

 Negli anni Trenta anche gli Stati Uniti si resero conto delle enormi potenzialità della canapa: nel 1941, il famoso produttore di automobili Henry Ford realizzò la prima vettura interamente costituita di plastica di canapa, più leggera ma anche più resistente delle normali carrozzerie in metallo, e alimentata da etanolo prodotto dallo stesso vegetale.

Henry Ford realizzò la prima vettura interamente costituita di plastica di canapa, più leggera ma anche più resistente delle normali carrozzerie in metallo, e alimentata da etanolo prodotto dallo stesso vegetale.


Sia in Italia che negli Stati Uniti, però, dopo la seconda guerra mondiale iniziò un lungo periodo di diffidenza nei confronti della canapa, e non solo per le sue proprietà “ricreative”. Alcuni sostengono che il lungo periodo di proibizionismo che ha interessato la coltura di questo vegetale sia stato indotto dalle lobby del petrolio e della carta – per la fabbricazione dei giornali si richiedevano grandi quantità di solventi chimici a base di petrolio – che vedevano nel settore canapiero un nemico insidioso. Il dato storico è quello che testimonia, a partire dal dopoguerra, l’avvento nei mercati occidentali delle fibre sintetiche e la demonizzazione della marijuana a uso ricreativo: un mix che ha alimentato il progressivo indebolimento di questa industria.

Solo a partire dal 2012 l’atteggiamento di alcuni Paesi occidentali è mutato, spesso in concomitanza di una ritrovata coscienza sociale sui disastrosi problemi ambientali legati ai cambiamenti climatici. Sempre più nazioni si sono rese conto delle grandi potenzialità di questa pianta versatile e le tecnologie del nuovo millennio hanno riaperto le porte a infinite possibilità di utilizzo.

L’Italia si è parzialmente adeguata ai mutamenti politici in atto nel resto del mondo con la promulgazione della Legge 242 del 2016 che ha introdotto nel nostro ordinamento disposizioni per la promozione della coltivazione della canapa e della sua filiera agroindustriale. È il caso di dire che non si aspettava altro: la Coldiretti ha presentato pochi mesi fa uno studio intitolato La new canapa economy da cui si evince che, nel giro di cinque anni, l’Italia ha visto aumentare di dieci volte i terreni coltivati, dai 400 ettari del 2013 ai quasi 4mila stimati per il 2018. Sono campagne dove si moltiplicano le esperienze innovative, con produzioni che vanno dalla ricotta agli eco-mattoni isolanti, dall’olio antinfiammatorio alle bioplastiche,
 fino a semi, fiori per tisane, pasta, biscotti e cosmetici.



La bioplastica di canapa è quindi già una realtà, e non solo nei grandi Paesi industrializzati come Canada e Stati Uniti, ma anche qui in Italia. Nel 2015, in Sicilia, è stata fondata una piccola impresa, la Kanesis, creata da uno studente di Ingegneria dei materiali di 22 anni. Giovanni Milazzo ha brevettato un materiale plastico simile al polipropilene, ricavato dagli scarti di lavorazione della canapa. Il risultato è un composto di fibre naturali biodegradabile, riciclabile ed esente da tossine, prodotto a prezzi concorrenziali rispetto alla comune plastica. La pianta di canapa è inoltre molto facile da coltivare: è comunemente chiamata “erba” perché come le “erbacce” cresce molto velocemente e si è adattata a crescere in tutti i continenti tranne l’Antartide. Dal seme al raccolto, le piante impiegano solo 3 o 4 mesi per crescere e, una volta grandi, assorbono ingenti quantità di CO2 dall’atmosfera. Richiedono, inoltre, generalmente meno pesticidi, fertilizzanti e acqua rispetto ad altre risorse bioplastiche come il cotone e il legno, fornendo un raccolto più rispettoso dell’ambiente e a bassa manutenzione.

Se vogliamo continuare a vivere su questo pianeta non possiamo più girare la testa sui disastrosi problemi ambientali che abbiamo creato. Fortunatamente per noi, abbiamo sviluppato, tecniche, colture o tecnologie in grado di poter modificare il nostro impatto ambientale con meno sacrifici di quanti potevamo immaginare solo pochi anni fa. Serve però una grande volontà politica e lungimiranza. In Italia, purtroppo, rispetto ad altri Paesi occidentali, la situazione è tra le peggiori, in quanto il dualismo interno al governo, rappresentato da Lega e M5S, non offre una linea univoca sulle questioni legate all’ambiente. Inoltre, già da tempo, la scarsa volontà politica viene camuffata da ricatto occupazionale: sembra che non possiamo modificare le nostre economie perché si perderebbero posti di lavoro. Ma è falso. Le “economie green” creerebbero nuovi posti di lavoro fondando nuove imprese e riconvertendo quelle già esistenti, permettendo ai lavoratori di operare in ambienti più sani ed evitando di creare quegli abomini inquinanti come l’Ilva di Taranto.



Nel governo italiano il quadro è questo: mentre i Cinque Stelle si dicono favorevoli alla promozione della coltivazione della canapa, il ministro dell’Interno Matteo Salvini sta da tempo mettendo in discussione la legge 242/2016, ed è facile immaginare che una stretta repressiva per contrastare la vendita di cannabis light potrebbe avere ripercussioni anche sulle coltivazioni funzionali ad altri usi. In più, mentre il M5S sembra sensibile al tema dell’inquinamento dovuto alla plastica, gli europarlamentari della Lega hanno contestato la buonafede della Direttiva Ue e hanno votato contro. Per anticipare gli effetti delle decisioni prese in Europa, al contrario, il ministro Costa, del M5S, ha presentato la Legge Salvamare, finalizzata a promuovere il recupero dei rifiuti dispersi nelle acque nostrane, il cui iter parlamentare dovrebbe iniziare da gennaio 2019. La proposta ha già generato contrasti interni al governo, e la sottosegretaria leghista al ministero dell’Ambiente Vannia Gava ha prontamente espresso il suo disaccordo, chiedendo di coinvolgere anche “i numerosi operatori industriali nel settore delle plastiche”. Non si può dunque escludere che dal prossimo anno il tema dell’inquinamento delle plastiche usa e getta sarà un campo di battaglia su cui i partiti di governo Lega e M5S misureranno le loro forze. Purtroppo, 
sempre con un pietoso anacronismo e a nostro discapito.




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