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Copenhagen: mobilitazione per difendere il Protocollo di Kyoto
Alberto Zoratti Fair
Cina, India, Brasile ma anche altri paesi latinoamericani affossano la bozza di accordo preparata dal governo danese. E chiedono a Obama di portare gli Usa nella cornice del Protocollo di Kyoto, senza cercare altri accordi che non spingono al taglio delle emissioni.
Si è dovuto scomodare persino il presidente della Commissione europea Barroso per chiarire che il «Danish text», il documento girato tra le mura della Conferenza Onu sui cambiamenti climatici, in corso a Copenhagen, tutto era fuorché un accordo preconfezionato alle spalle dei Paesi emergenti. I colpi di obice sono arrivati in rapida successione dopo le 13, in due conferenze stampa una di seguito all’altra; la prima dei Paesi aderenti all’Alternativa Bolivariana per le Americhe [Alba], l’associazione di paesi latinoamericani spinta e sostenuta dal venezuelano Hugo Chavez, la seconda della Cina e del gruppo del G77, i pesi massimi di questo vertice assieme agli Stati Uniti. La parola d’ordine è «non si abbandona il Protocollo di Kyoto»: per Ecuador, Venezuela e Bolivia rappresenta l’unica cornice legale vincolante e condivisa su cui basare ogni altro passo per combattere il cambiamento climatico.
E secondo il Venezuela non esiste alcun documento che possa cambiare lo status quo senza che ci sia una reale volontà politica condivisa ampiamente. Ecco servita, senza tanti commenti, la risposta al presidente Barroso.
Mezz’ora dopo il portavoce del gruppo che unisce Cina più il G77, Lumumba Di-Aping, è stato ancora più chiaro: «Chiediamo al Presidente Obama, come vincitore del premio Nobel per la pace, campione del multilateralismo e orgoglioso di provenire dall’Africa, persona che ha in quel continente fratelli e sorelle, di portare gli Stati Uniti all’interno del protocollo di Kyoto. È tempo di salvare il mondo, non è tempo di rinventare quello che abbiamo già concordato». Insomma non c’è spazio per tatticismi, è l’ora che i Paesi industrializzati facciano propria la responsabilità storica dell’inquinamento che la loro crescita economica ha causato, e decidano di pagare il debito ecologico che hanno contratto con il pianeta.
«Avete erogato miliardi di dollari per salvare banche e budget – ha rilanciato Lumumba – perché volete tirarvi indietro quando si deve salvare il mondo? C’è bisogno di un cambiamento di consumi, di modello di produzione, ma anche di leadership – ha concluso – Gli Usa sono intervenuti in tutto il mondo per assicurare la pace negli ultimi decenni. Oggi sono in discussione la sicurezza e la pace del mondo. C’è bisogno degli Stati Uniti».
E’ l’offensiva diplomatica che sta intorno alla bozza di accordo finale elaborato da Paesi emergenti come la Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica ed il Sudan e che è stato diffuso dalle pagine del quotidiano francese Le Monde: il documento riporta tutto sotto l’egida delle Nazioni Unite, anche il fondo di finanziamento che gli Stati Uniti vorrebbero nelle mani della Banca Mondiale, e soprattutto rilancia il Protocollo di Kyoto. Proprio il protocollo che gli Stati Uniti non hanno mai accettato e che vorrebbero «superare» con un altro accordo, meno vincolante per i Paesi industrializzati.
E a Copenhagen continuano a sbarcare delegati ed attivisti. Le attese per la manifestazione del 12 dicembre, che sarà la punta di diamante di migliaia di iniziative in tutto il mondo per chiedere che si cambi modello di sviluppo e si tuteli il pianeta, stanno superando ogni previsione. E il 16 dicembre, quando la società civile di tutto il mondo sfilerà per «reclaim the power», si sta avvicinando.
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